Essere rider: chi sono i ciclofattorini, cosa fanno le loro aziende

Essere rider

Tre reportage sulla food delivery

Chi sono i ciclofattorini, cosa fanno le loro aziende

Uber e le sue sorelle

Il colloquio di lavoro è fissato nel seminterrato di un condominio alla periferia est di Milano. Al citofono nulla di riconducibile al papabile datore di lavoro. Sulla porta al piano -1 la targa indica “Vita Infinita World”. Decine di migranti africani incontrati negli ultimi mesi hanno transitato per questa porta, pronti a salire in sella alle loro bici, costi quel che costi. È stato uno di loro a passarmi il contatto di “Uber Flash”, raccontandomi che «non è Uber Eats ma lavora con Uber, solo che da ciclofattorino si guadagna praticamente la metà».

Scopri come lavora Uber

Mi accoglie L., ragazzo biondo poco più che ventenne, anche lui ciclofattorino per Flash fino a poco tempo fa. Mi mostra l’app di Uber Eats e risponde disponibile a tutte le mie domande. Mi offre un contratto di prestazione occasionale: poco più di 3 euro netti a consegna, niente minimo orario garantito, pagamenti ogni quindici giorni via bonifico, uno zaino Uber Eats usato (quelli nuovi arrivano ad agosto) che mi consegnerebbero dietro penale di 80 euro. Tutto come descritto dalle decine di richiedenti asilo provenienti da diverse province lombarde che raccontano di dedicare a questo lavoro fino a 11 ore al giorno.

È anche così che Uber, colosso valutato intorno ai 70 miliardi di dollari e famoso in tutto il mondo per il servizio privato low cost di trasporto passeggeri (attualmente vietato in Italia) gestisce ogni giorno la consegna a domicilio di piatti da ristoranti e fast food nelle case milanesi, attraverso l’applicazione Uber Eats. Uno schema di lavoro ‘atipico’ nell’era della gig economy in cui Uber mette ‘solo’ l’applicazione, il sistema di pagamento e il marchio al servizio di alcune imprese esterne. Queste a loro volta contrattano il personale da destinare alle consegne, rendendo il guadagno effettivo del ciclofattorino anche la metà della cifra visualizzata sull’applicazione e non adottando le stesse tutele previste invece per i ciclofattorini ‘diretti’ di Uber Eats.

«Non abbiamo scelta, non c’è altro lavoro per noi se non questo» dice Alasana (nome di fantasia), richiedente asilo residente fuori provincia. Oltre allo zaino termico, sulle sue spalle viene scaricata anche una parte del rischio d’impresa: «A volte passano interi pomeriggi senza consegne e per quelle ore prendiamo zero, zero».

«Sono 35 anni che siamo leader nel settore dei pony express. Sfruttiamo il marchio e l’app di Uber Eats ma abbiamo una relazione diretta con i ristoranti» racconta al telefono Danilo, responsabile di Flash Road City, che molti ciclofattorini chiamano appunto Uber Flash.

«Siamo intermediari. Operiamo in un contesto dove i lavoratori sono liberi di scegliere se e quando lavorare». L’errore, secondo Danilo, è di accostare le ore di disponibilità (connessione) alle ore di effettivo lavoro dei ciclofattorini. «La nostra media si attesta attorno all’1,7 consegne all’ora, quindi tra i 4 e i 5 euro orari». Alcuni dei corrieri intervistati a Milano hanno però dichiarato di visualizzare sull’app i propri guadagni e di riceverne effettivamente la metà, a volte tra i 300 e i 400 euro netti al mese lavorando anche 11 ore al giorno. «Stare connessi non significa lavorare. Ai nostri dipendenti è comunicato esplicitamente che le cifre visualizzate sull’app non corrispondono al loro guadagno, da cui bisogna togliere la ritenuta d’acconto e la nostra parte». Il mondo del lavoro cambia e con esso il suo linguaggio, i suoi termini.

Se Uber Flash offre un contratto di prestazione occasionale senza garanzie di guadagno - alcuni intervistati raccontano di giornate ‘magre’ da due consegne (6 euro) in 10 ore di attività - c’è un’altra impresa specializzata nella gig economy milanese targata Uber.

Si tratta della Livotti s.r.l., esperta nella consulenza per la gestione della logistica delle aziende, che assume ciclofattorini per farli lavorare su Uber Eats applicando un contratto di collaborazione continuativa e coordinata a 3,20 euro netti a consegna.

Qui tra buste paga e contratti la situazione sembra essere paragonabile a quella di molte altre imprese di consegne a domicilio, con un’eccezione: una limitata flessibilità.

Mentre sulle pagine di Uber campeggiano slogan inneggianti alla totale libertà di lavorare o no (“Your day belongs to you”, la tua giornata appartiene a te; “Deliver with Uber, earn on your own schedule”, consegna con Uber e guadagna quando vuoi), i ciclofattorini di Livotti che lavorano con l’app di Uber Eats vengono organizzati in tre turni: pranzo, pomeriggio, sera. Chi non supera il 90% di efficienza (ossia chi non accetta il 90% degli ordini) non ha diritto a ricevere i 3,20 euro orari garantiti in caso di mancanza di consegne, come è scritto chiaramente nel contratto.

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«Non mi risulta ma farò i controlli del caso [...] Può essere che alcuni contratti siano stati formalizzati in questa maniera [...] In ogni caso se fosse stata inserita (la limitazione del minimo garantito) è perché ogni lavoro va retribuito correttamente in base alle performance del lavoratore». A parlare è Maurizio Foglia, presidente della Livotti s.r.l., sostenendo che nonostante un’organizzazione di massima settimanale (i lavoratori riferiscono di turni coordinati ogni domenica), ogni collaboratore rimane libero di decidere se e quando accettare le consegne. «L’app (Uber Eats) non è un nostro strumento interno di lavoro [...] purtroppo il valore visualizzato sull’applicazione è puramente teorico e (la differenza tra il salario effettivamente percepito e quest’ultimo) viene sempre spiegata chiaramente».

È la nuova frontiera di Uber: fare consegne a domicilio senza dover contrattare direttamente i ciclofattorini. Un processo che sembra coinvolgere in particolare una delle fasce più fragili della popolazione: quella dei migranti, molti dei quali richiedenti asilo come Alasana.

Alcuni di loro, sprovvisti di permesso di soggiorno e quindi della possibilità di lavorare legalmente, parlano delle società terze che si servono di Uber Eats come “unica opportunità di impiego per chi non ha documenti”. Tra gli intervistati c’è chi sostiene che Uber Eats sia in contatto con le società ‘sorelle’ per passargli i lavoratori che hanno raggiunto il tetto massimo di guadagno annualeCon il contratto di prestazione occasionale il committente e il prestatore devono rispettare dei limiti economici. I compensi di questo tipo non possono superare complessivamente i 5mila euro annui. (Fonte: INPS.it) attraverso la prestazione occasionale (5mila).

Uber non è stata disponibile a rilasciare un’intervista ma ha risposto ad alcune domande via email, sottolineando la differenza tra i suoi corrieri indipendenti e i corrieri dipendenti di società terze presenti sulla piattaforma Uber Eats. Gli obblighi contrattuali e le tutele di questi ultimi vengono definiti appunto dalle imprese esterne. Secondo Uber, il ruolo dell’applicazione è limitato al “mettere in contatto ogni ristorante con il corriere (indipendente o impiegato da una società di logistica) libero più vicino, e di facilitare le transazioni elettroniche di pagamento”.

Circa la possibilità che su Uber Eats operino migranti senza permesso di soggiorno, Uber non è in grado di garantire che tutti i ciclofattorini presenti sull’app abbiano i requisiti per lavorare. “Un sì o un no non si prestano a dare la visione d'insieme a cui ambisce il vostro lavoro [...]. Da parte nostra possiamo garantire che c'è tutto l'impegno affinché ad operare sulla piattaforma ci siano solo corrieri che hanno i requisiti per farlo”.

Uber ha dichiarato inoltre che “è responsabilità dei corrieri monitorare i propri guadagni e segnalare a Uber il raggiungimento della soglia nel corso dell’anno solare.

Una volta raggiunta questa soglia il singolo corriere non può più operare come indipendente, ma questo non impedisce a società terze di impiegare lo stesso corriere alle proprie dipendenze”.

Flash Road City ha dichiarato che “se [i lavoratori] non hanno il permesso di soggiorno in regola, non facciamo firmare il contratto” e che a volte loro stessi producono documentazione per supportare la richiesta di rinnovo del permesso di alcuni collaboratori.

I pendolari della gig economy

Tutti i treni da Porta Genova passano a Mortara.

Questo comune pavese di 15mila abitanti, più vicino a Vercelli che a Milano, ospita stabilmente da qualche anno almeno 110 richiedenti asilo, secondo i dati 2017 della Prefettura. Alcuni di loro passano intere giornate all’ombra delle piante di un parco pubblico, seduti su sedie barcollanti ad ascoltare musica e fumare.

«Non possiamo lavorare. Nessuno ci assume e alcuni di noi non hanno nemmeno i documenti necessari» racconta G., proveniente dal Gambia. «Questa non è vita, non ci immaginavamo una situazione del genere» gli fanno eco. Alle sue spalle un amico non riesce a trattenere le lacrime. Ne nasce una discussione a tratti accesa sulle politiche migratorie e di accoglienza nel nostro paese.

Li separa una linea netta: da una parte i rassegnati e dall’altra coloro che per pochi euro sono disposti a lavorare tutto il giorno.

Così tra le 9.33 e le 11.33 di ogni mattina decine di migranti da Mortara e dintorni decidono di caricare le loro bici, zaini termici sulle spalle, e affrontare la loro giornata da rider tra le vie del capoluogo lombardo. Molti di loro non torneranno a casa prima delle 23.30, giusto il tempo di riposare per poi iniziare un’altra, lunga giornata a consegnare pasti tra le strade di Milano.

Chi sono i ciclofattorini di Milano

«È ora di scendere in piazza e far capire che a noi questo lavoro va bene così com'è. [...] Con un solo stipendio da 800 euro come vigilante non arrivavo alla fine del mese». Lo sfogo di L. È affidato alla chat di whatsapp che riunisce un centinaio di ciclofattorini attivi a Milano. È appena uscita la notizia dell’inquadramento dei rider nel contratto nazionale della logistica. «Coi contratti sì che guadagneremo 4 spicci» gli fa eco G.

La maggiore preoccupazione è che il loro lavoro (in alcuni casi ‘lavoretto’) venga ‘snaturato’ dal nuovo inquadramento e perda ciò che li ha portati a consegnare pasti per le strade di Milano: un’occupazione estremamente flessibile (in molti casi lavorano solo quando e quanto lo desiderano) gestita comodamente attraverso un’applicazione dello smartphone.

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In realtà da quel luglio 2018 per L., G. e migliaia di altri ciclofattorini italiani non è cambiato quasi nulla: le principali imprese che ne gestiscono il lavoro continuano a inquadrare i propri ‘collaboratori’ tramite contratti di prestazione occasionale (nel caso della londinese Deliveroo, la spagnola Glovo e delle imprese che si servono dell’app Uber Eats) o collaborazioni coordinate e continuative (come la tedesca Foodora).


Così L., G. e la maggior parte dei loro colleghi consegnano a domicilio in bicicletta senza un reddito orario minimo fissato (vengono pagati a consegna realizzata), senza grandi limiti di impegno orario settimanale (c’è chi lavora 70 ore a settimana, anche per più applicazioni) e senza tutele minime garantite (solo il co.co.co implica il versamento dei contributi alll’INPS). A non tutti è riconosciuta un’assicurazione e in molti casi quella stipulata dall’impresa risulta ridimensionata rispetto agli standard INAIL.

Non è tutto come sembra

Come si nota dai dati raccolti in questa inchiesta, non esiste al momento una posizione comune a tutti i ciclofattorini circa la natura del loro inquadramento e il futuro del loro lavoro. Se in tanti si sono dichiarati soddisfatti o più che soddisfatti della loro attività, negli ultimi anni hanno fatto rumore (in Italia e non solo) le richieste volte a ottenere maggiori tutele e garanzie, provenienti soprattutto dai sindacati auto organizzati.

La sentenza dell’11 aprile 2018 L'11 aprile 2018 il Tribunale ordinario di Torino qualificò come 'prestazione di lavoro autonomo' il rapporto di lavoro tra Foodora, impresa di consegna del cibo, e sei rider che avevano intentato una causa civile contro essa. emanata dal Tribunale ordinario di Torino è stata la scintilla che ha acceso il dibattito attorno alla figura dei rider, un confronto che nel luglio 2018 il Governo ha trasferito attorno a un tavolo di trattativa con associazioni di categoria, imprese della food delivery, sindacati e rappresentanti dei ciclofattorini.

Oltre alle problematiche relative all’inquadramento dei ciclofattorini esistono però fenomeni più complessi, alcuni dei quali sono nati con l’emergere di questa professione gestita tramite app per smartphone.

È il caso del punteggio reputazionale, che secondo parametri diversi per ogni applicazione (disponibilità a lavorare nelle ore e nelle giornate di punta; feedback di ristoranti e clienti; assenze non comunicate sui turni prenotati; numero di consegne effettuate) inserisce i lavoratori in una classifica per determinare chi potrà scegliere per primo in quante e quali ore lavorare i giorni successivi.

Molte delle principali piattaforme di consegna attive in Italia - Glovo e Deliveroo per esempio - prevedono infatti un sistema di prenotazione delle ore di lavoro. Se, a causa soprattutto del punteggio basso, un ciclofattorino non riuscisse a trovare ore libere da ‘bloccare’, quella settimana potrà lavorare solo accaparrandosi ore precedentemente prenotate e poi ‘liberate’ dai colleghi dell’app.

Il lavoro, inteso come ore di impiego, si trasforma quindi in merce pregiata, ricercata, scambiata. «Libero venerdì 12-15 in cambio di sabato 19-22, qualcuno interessato?» si legge spesso nella chat informale dei ciclofattorini.

Il sistema premia coloro che raggiungono punteggi più alti, che poi potranno organizzarsi con amici e colleghi in una sorta di ‘redistribuzione’ secondaria delle ore.

Nel settore della consegna di cibo a domicilio le ore non sono tutte uguali: i picchi di domanda si registrano normalmente tra le 12 e le 15 e tra le 19 e le 22. Nel resto della giornata un ciclofattorino potrebbe ritrovarsi senza consegne da effettuare e - nei casi di Foodora, Glovo e alcuni corrieri Uber Eats - passare ore connessi e disponibili sull’app senza guadagnare nulla. Così l’impresa trasferisce una quota importante del proprio ‘rischio’ sui lavoratori, che non hanno praticamente nessun ruolo nella ‘gestione’ degli ordini e che quindi, in mancanza di consegne da effettuare, non possono far altro che aspettare.

«Come dimostra l’addio di Foodora, il rischio d’impresa rimane principalmente sull’impresa» sottolinea Matteo Pichi, volto italiano di Glovo. “Non siamo noi a cambiare il mondo del lavoro. Noi portiamo innovazione, anzi la guidiamo”.

Ingannare l’app: prestanomi e intermediari

Alberto (nome di fantasia) voleva lavorare come fattorino a Milano ma nessuna delle sue candidature era andata a buon fine. Mentre tentava la ricerca di un ‘lavoretto’ qualsiasi, ecco arrivare la proposta di un amico. «Non sapeva quasi nulla nemmeno lui. Mi ha dato un numero di telefono dicendomi che c’era un account disponibile. Così ho telefonato ad H. ed è iniziata la mia esperienza con Glovo».

Alberto lavora sia in scooter che in bicicletta e racconta con soddisfazione della propria occupazione. Mi mostra l’app di Glovo davanti a un McDonalds’ del centro di Milano. «Lavoro con il profilo di un’altra persona, tutto qui. Ogni mese ricevo i soldi direttamente da H. che si trattiene una parte per la ‘gestione’ della cosa, come fa con tutti gli altri profili che ha distribuito in giro». La fetta per H. equivale al 10% su ogni consegna, racconterà poi Alberto, che non conosce né la provenienza del suo profilo né quale sia l’accordo tra H. e il legittimo detentore.

Secondo alcuni ciclofattorini intervistati per le strade di Milano, il sistema non sarebbe limitato ad H. e ai suoi profili disponibili. Un lavoro senza un preciso ‘luogo’ rende questo sistema vulnerabile ai ‘trucchi’ che intermediari e prestanome sfruttano per ottenere facili guadagni o dare lavoro a coloro che non posseggono i requisiti necessari.

«Il rischio c’è, ma ogni giorno cerchiamo di monitorare meglio la situazione» sostiene Pichi.

Il ciclofattorino di Milano - La newsapp

Naviga la mappa interattiva e scopri le ‘storie’ di ogni ciclofattorino incontrato per la città, cliccando sul puntino corrispondente. Sulla destra trovi la barra di navigazione per restringere la ricerca e alcuni dati interessanti che si aggiornano in base all’area di Milano visualizzata sulla mappa.

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25 anni, cittadinanza straniera, diploma di scuola superiore, invisibile all’INPS. Fa le consegne perché è l’unico lavoro che ha trovato (ed è anche l’unico che svolge) e ci dedica circa 30 ore ogni settimana. Desidererebbe salari più alti ma in generale è soddisfatto della sua professione. Se dovesse esistere un ciclofattorino tipo a Milano, avrebbe queste caratteristiche.

Un profilo molto diverso da quello descritto da Glovo (1500 corrieri attivi a Milano ), secondo cui la metà dei fattorini prenota meno di 12 ore alla settimana.

Tra maggio e giugno 2018 abbiamo intervistato faccia a faccia 200 ciclofattorini al lavoro dentro il perimetro urbano di Milano. In mancanza di dati certi sul totale degli occupati nel settore (il cui numero varia in misura rilevante durante l’anno), il campione casuale raccolto può stimarsi intorno al 10% del totale dei ciclofattorini attivi a Milano durante il periodo di raccolta dati. Le interviste sono state effettuate principalmente negli orari di elevata domanda del servizio (tra le 12 e le 14, tra le 19 e le 22) in diverse zone della città (spesso davanti a ristoranti convenzionati).

Naviga e confronta i dati raccolti tramite l’applicazione. Ogni cerchio rappresenta un ciclofattorino intervistato. In basso a destra trovi le finestre a tendina dove selezionare i dati da visualizzare.

Scopri i dati chiave

  • Due ciclofattorini intervistati su tre sono di origine migrante;
  • Il 94% dei ciclofattorini intervistati che usano l’applicazione UberEats è di origine migrante; in Foodora 2 ciclofattorini su 3 sono stranieri; in Glovo e Deliveroo i migranti sono la maggioranza;
  • Il ciclofattorino milanese tipico ha 25 anni, non è italiano, ha finito le scuole superiori, non è iscritto all’INPS (e non versa nessun tipo di contributi), lo fa perché è l’unico lavoro che ha trovato (ed è l’unico che svolge), lavora 30 ore a settimana.
  • Il 50% dei ciclofattorini intervistati pensa che i pagamenti siano adatti al lavoro svolto, l’altro 50% che non siano adatti;
  • Quasi la metà degli intervistati si dice molto soddisfatta (o moltissimo) del suo lavoro di ciclofattorino;
  • Tre ciclofattorini intervistati su quattro vengono pagati a consegna (Glovo, Foodora e alcune società terze che usano Uber Eats non prevedono, se non in casi eccezionali, un numero di consegne garantite all’ora);
  • La maggior parte dei ciclofattorini intervistati viene pagato a consegna: una frutta in media 4,4 euro lordi. Per coloro che vengono pagati all’ora o con un sistema misto con una parte all’ora e una parte a consegna, un’ora di lavoro mediamente porta 8,6 euro lordi, con grandi differenze tra le imprese attive nel settore.

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